A questi anni di razzismo sempre più invasivo e prepotente voglio dedicare una storia di speranza e solidarietà.
Ai lettori ed alle lettrici auguro una piena consapevolezza della realtà in cui viviamo.
Puoi anche leggere tutti i racconti sul mio blog www.mirnaprof.weebly.com
Il titolo del racconto lo dice il protagonista della storia...
LE STELLE NON SCENDONO DA NOI
Una sera d’inverno rientravo dalla birreria come sempre verso le undici, i miei amici si erano trattenuti per il jazz, sapevo che di notte la città era pericolosa, ma l’indomani il lavoro mi aspettava, dovevo rientrare.
Camminavo con passo svelto, indossavo jeans e piumino e cappello di lana che scaldava pensieri. Sotto i portici rincasavano gruppetti di persone, io ero sola contro il gelido vento che spazzava e disperdeva l’alito di passanti chiusi in cappotti dai baveri alzati o avvolti in sciarpe che celavano ogni parola, sentivo l’eco dei loro passi che si nascondeva dentro le fughe del grigio selciato, si abbrunivano lungo la via forme oscure al limite della notte, paura, timore si stringeva a fiochi lampioni.
Avrei girato l’angolo, le logge di Piazza Castello erano alle mie spalle, ora il freddo era intenso, il buio della notte si posava su di me, il nulla mi sottraeva alla lieve luce della luna.
Mi sarei ritrovata seduta in un portone: intorno polvere, odore di muffa, ricordi affondati in orizzonti di sgomento, grumi di dolenza fisica attraversavano il corpo, la testa scoppiava per l’acuto dolore.
Accanto a me c’era un uomo, scuro come la notte, stava seduto silenzioso, intravedevo le bianche pupille dei suoi occhi.
«Come stai?», mi avrebbe chiesto con una voce dall’accento straniero, l’avrei guardato ma non vedevo bene, tutto era offuscato, con la mano che passavo sul mio viso, lambivo sedimenti di sangue rappreso che scendevano dalla testa ancora dolente.
Sentivo dalla sua voce che era giovane, per istinto avvertivo che era un raggio di luce, con avide mani mi aggrappavo al mio stupore, al suo silenzio, piangevo per il dolore mentre il cuore batteva veloce.
Poi il respiro ritornava calmo, mentre mi asciugavo gli occhi e gli avrei chiesto: «Cosa è accaduto? Perché mi trovo qui in questo ingresso?»
«Uomini brutti, cattivi … Bevuto molto», mi avrebbe detto.
Comprendevo poco, non ricordavo niente ma avevo coscienza che eravamo entrambi vulnerabili esseri.
«Da dove vieni?», non rispondeva.
«Sei un clandestino o un profugo?», non capiva e taceva.
Gli porgevo le man: «Aiutami!», gli dicevo mentre cercavo inutilmente di alzarmi in piedi.
Adesso la mia vista era tornata e avrei osservato i miei abiti strappati, sporcati, i ginocchi sbucciati, le mani piene di sangue, mi sembrava di avere le ossa rotte.
Non ce la facevo ad alzarmi:
«Aiutami.»
Lui si alzava, mi avrebbe preso le braccia e mi avrebbe tirato su.
Mi rendevo conto che sapeva quattro parole d’Italiano e forse ne comprendeva dieci.
Attraverso la minuscola finestra, coperta di polvere e ragnatele, quel poco di luce che entrava mi permetteva di guardarlo, era un ragazzo alto, scuro nella pelle, capelli attorcigliati in piccolissimi intrecci, raccolti in una coda.
«Almeno sapessi un po’ d’Inglese!», gli avrei detto mentre cercavo di rimanere in piedi su gambe malferme, appoggiata al suo corpo.
«Parlo molto bene l’Inglese, la Nigeria era una colonia britannica.», mi guardava con aria di liberazione e mi avrebbe chiesto: «Tu parli Inglese?»
« Mio padre è Inglese, ho vissuto 16 anni con lui a York, lì ho studiato, lo parlo come l’italiano».
Adesso ci comprendiamo, il mio inglese perfetto, il suo incerto con inflessioni dialettali, potrebbero unire pensieri, paure, e realtà.
«Devi andare all’ospedale hai una ferita alla testa, hai perso i sensi … Chiama il numero …
Sapevo che lui mi aveva salvato, che gli dovevo la vita, non chiamerò l’ambulanza, interverrebbe la polizia, non voglio metterlo in difficoltà, domani, sarei andata all’ospedale.
«Da dove vieni?»
«Nigeria, sono cristiano, sono scappato per salvarmi. Vado a Calé, lì mi imbarco per l’ Inghilterra.»
«Hai documenti?»
«No.»
«Sei un “sans-papier», gli avrei detto con tono calmo ma sicuro, addossata al suo corpo che mi avrebbe sostenuto:
«Tu non attraverserai la frontiera Francese, non morirai soffocato da un sacco di nylon con dentro la testa. Non voglio, non te lo permetterò! ... Domani ti spiegherò le leggi razziali francesi di Sarkozy, andiamo adesso, non sto bene, puoi dormire a casa mia … Aiutami a camminare …. Da sola non ce la faccio.»
Così avremmo aperto il portone, il gelo della notte ci avrebbe investito, Torino elargiva freddo a grandi mani, l’inverno ora sfilava lungo i tronchi del viale su cui avremmo camminato a fatica, passo dopo passo, il vento agitava i rami spogli, stecchiti, che stridevano, uniche tracce di labili vibrazioni naturali.
Mentre avremmo proceduto con lentezza, ci saremmo sorretti abbracciati nella notte, non avremmo saputo che in noi qualcosa si sarebbe incrinato, sogni di luce erano stati inghiottiti dal pantano sociale.
Avrei letto la tristezza sul suo viso, lo sguardo inquieto per quanto detto o forse per qualcosa che era accaduto, qualcosa di cui io non avevo ancora coscienza.
«Guarda, le stelle!», avrei detto per consolarlo, «Sono belle», rispondeva, «Ma non scendono da noi! A loro rivolgiamo lo sguardo fra guerre, morte, paura e dolore, ma non scendono da noi.»
Eravamo due macchie incorporee, due anime erranti sospese nel buio, lui era un migrante verso terre sognate, io preda, vittima del terrore, a poco a poco foglie rosse di sangue calavano con lentezza sul suolo della memoria mentre avanzavo con stanchi passi sorreggendomi a lui.
Un forte odore di alcol mi avvolgeva, mani di più uomini colpivano, laceravano fra urti e pressioni piumino e indumenti, ero in un vortice di voci che sputava vino e insulti, tra l’odore di corpi fradici di droghe e allucinogeni, sogghigni, sorrisi sprezzanti che denudavano la mia femminilità, mi sentivo un’ombra che si allungava nella palude abietta, atroce in cui molte donne affogavano in silenzio, il terrore si distendeva e avanzava verso di me.
Infine vedevo lui, clandestino migrante, affondava colpi con mani e piedi in quella indistinta sporca bianca materia che dal tempo dei tempi, la religione dell'Occidente, la scienza, la storia avevano lodato, glorificato, battezzandola «razza superiore» che di lì a poco si disperdeva, pisciandosi addosso.
Poi il bianco negli occhi, la luce che tremava e cadevo a terra.
Non sapevo per quanto tempo ero rimasta senza coscienza.
Portavo nel corpo e nell’anima i segni di quel terrore, di quell’umiliazione, sentivo la pelle imbrattata da un nero, viscoso fango, un’onda livida aveva ingoiato respiri, annodato con spire di serpente, strinto e stritolato ossa, anima, pensieri.
Saremmo arrivati sotto il portone di casa mia, l’avremmo aperto e prendendo l’ascensore che saliva fino al quarto piano, non c’era imbarazzo fra noi, eravamo compagni di una brutale realtà, eravamo anime sospese in attesa dell’alba.
«Questo è il mio appartamento, era dei miei genitori», gli dicevo mentre debole, spossata mi sarei seduta sul divano.
Lui sarebbe rimasto in piedi mi avrebbe guardato:«Come stai?»
Nella luce della lampada osservavo i suoi bellissimi occhi neri, la pelle bruna, i fini lineamenti.
«Ho tanta sete, tanta sete.»
Dopo due secondi ero stesa sul divano assopita da un torpore di sfinitezza, mi sarei svegliata la mattina, quando la luce entrava dagli avvolgibili, erano le dieci, avrei chiamato la mia collega di lavoro, insieme gestivamo un’agenzia di vacanze, poche parole:
«Sono malata, e devo farmi una lastra alla testa, ci vediamo lunedì.»
Poi mi sarei alzata dal divano, di questa società moderna amavo solo la tecnologica, cellulare sempre sotto mano, Internet, computer, fax , tablet in ogni stanza.
Una doccia infinita dissolveva sangue, frammenti di sporcizia, ribrezzo, orrore che scivolavano dal corpo con acqua e schiuma, avvolta del mio accappatoio mi sarei chiesta:
«Lui dov’è?»
L’avrei cercato con ansia, temevo che fosse andato via, che in silenzio avesse ripreso la strada delle sue illusioni, dei suoi sogni che avevano già le ali spezzate, guardavo in ogni stanza, cucina, camere da letto, infine lo vedevo: dormiva, steso sul tappeto della grande biblioteca di mio padre.
Riposava, mentre mi sarei rivista bambina in quella grande casa, mia madre con la dolcezza di una brezza d’estate ricamava sogni nei miei occhi di bimba, dissolveva nuvole con un sorriso di perla, mio padre, adorabile essere che aveva il respiro del mare, appariva e scompariva immerso nel suo lavoro di docente universitario, lo rivedevo seduto alla sua scrivania, studiava e lavorava, ma quando entravo in biblioteca, si sarebbe alzato, sorridente mi prendeva in braccio, mi coccolava, la sua voce espandeva fili che si annodavano alla mia anima, mentre il suo gatto persiano guardava pigro ma geloso.
Da lui avevo conosciuto fin da piccola la cultura e l’arte di ogni popolo sia in Inglese che in Italiano.
Scuotevo questi ricordi accesi ma anche tristi e mi dirigevo in cucina, preparavo la colazione, lo lascivo dormire nel suo sonno innocente quasi di bambino.
Non sapevo il suo nome, né quanti anni avesse, mi bastava sapere che era un amico a cui dovevo molto.
Me lo trovavo davanti all’improvviso, gli sorridevo, lui avvicinandosi, mi avrebbe domandato:
«Come stai oggi?»
«Sono ancora dolorante e stordita, come se un tir fosse passato sul mio corpo, la testa mi duole, sai, pensavo pochi attimi fa che non conosco il tuo nome, tu non sai il mio, eppure non siamo sconosciuti!»
«Mi chiamo Chuba Ojukw.», mi avrebbe detto.
«Io sono Emma Stevens.»
Prima di preparare il caffè, gli avrei mostrato il bagno, la doccia, gli asciugamani e degli indumenti puliti, erano di Manuel, l’uomo con cui avevo vissuto per quattro anni.
Poi seduti al tavolo di cucina, ci saremmo guardati negli occhi, avremmo celato le ombre di un’altra vita.
«Perché sei senza documenti?», gli avrei chiesto.
«La mia storia è quella del Biafra, regione del sud- Est della Nigeria, ricca di petrolio, dove la guerra non è mai finita, mio nonno è morto nella guerra di liberazione, apparteniamo alla tribù cristiana degli Igbo, sterminata per fame e malattie, milioni di bambini sono morti, le loro immagini hanno fatto il giro del mondo. Ma l’Europa è rimasta a guardare», si nascondeva il viso nelle mani, quasi la realtà gli fosse sfilata davanti agli occhi e continuava: «Nella mia terra la guerra e la miseria sono alberi dalle radici profonde, tu li tagli e loro rinascono con i frutti della morte.» Adesso i suoi occhi erano lucidi, tratteneva le lacrime con grande dignità.
«La mia famiglia è stata sterminata, padre, madre, fratelli, mi sono salvato soltanto io. Ero in un altro paese per cercare lavoro.» Il suo volto ora era cupo, tirato, alzava lo sguardo su di me.
«Non credere che sia solo l’eterna lotta fra Cristiani e Mussulmani, dietro c’è anche qualcuno che uccide per interesse economico: ladri, bande di delinquenti che ammazzano uomini, donne e bambini, incendiano, saccheggiano, bruciano.»
Qualche attimo di silenzio in cui raccoglieva pensieri e parole:«Non posso avere documenti, il mio villaggio non esiste più … Scomparsa la scuola, le case, gli uffici pubblici, la Chiesa, tutto è stato bruciato.»
Avremmo bevuto il caffè ma non avremmo mangiato entrambi, avevamo in bocca l’aspro, il disgusto di schizzi di sangue.
«Le stelle non scendono da noi.», gli avrei detto, gli avrei preso una mano, lo guardavo negli occhi, e avrei chiesto: «Tu, ti fidi di me?»
«Sì.», mi avrebbe risposto.
«Ascolta, tu mi attenderai in casa, andrò all’ospedale per fare le analisi radiografiche, poi mi prenderò cura di te, stai sereno, quando sarò ritornata parleremo del tuo viaggio, non temere.»
Mi sarei preparata con premura cancellando con il trucco lividi e graffi, mentre pensavo che avrei parlato con mio padre, lui, l’amore più grande della mia vita.
Lasciare Chuba in casa da solo mi dava uno strizzotto nel cuore, quegli occhi neri erano qualcosa di più lo sentivo, con sgomento sarei scesa in ascensore, le gambe mi facevano ancora male, di solito le scale le volavo sia in salita che in discesa.
Avrei preso l’autobus, seduta al caldo mi sfilavano davanti viali, alberi spogli, grandi parchi che il vento aveva svuotato, pensieri, dubbi riempivano la mente.
Pensavo alla Storia di Chuba, alla mia, ma cosa dovremmo espiare in questa vita? Per quello che mi riguardava, il mio passato era stato un arrampicarsi su un cumulo di sentimenti, affetti, persi per sempre, gradino dopo gradino che come falci limate avrebbero tagliato l’anima come se fosse grano, e la parola d’ordine era stata “resistere”.
Tutto era iniziato con la morte di mia madre, vittima di un incidente stradale, avevo otto anni, il dolore sarebbe diventato un inquilino della nostra casa, un ospite dal respiro di marmo in un silenzio che paralizzava, mio padre non parlava più, non mangiava, non mi vedeva, non mi sentiva, non avrei mai saputo se avessi sofferto di più per la perdita di mia madre o del mio adorato papà.
Per lui era impossibile vivere nella nostra abitazione, dai soffitti di ogni stanza, in ogni ora del giorno e della notte scendevano ricordi compressi, stratificati nel cuore, così saremmo andati ad abitare dai nonni a York, lì avevo vissuto, e studiato; mi sarei laureata in giornalismo e solitudine, poi tornata in Italia, il mondo di mia madre, il paese del sole, mio padre non aveva mai cercato altre donne, viveva da solo con il suo lavoro e i suoi ricordi, una volta mi aveva detto: «Quando l’amore ti riempie lo spirito e le labbra se lo perdi resterai vuoto e muto per sempre.»
Non ero stata travolta dall’amore come mio padre, la mia vita sentimentale espressa in una limpida convivenza, durata solo quattro anni, Manuel era un tesoro, i giorni erano trascorsi con serenità ma senza averne coscienza i nostri piedi erano affondati in un terreno fertile di fraternità, lontano da noi ogni riflesso di quello che credevamo amore.
Oggi sapevo che per me era stato il fratello che non avevo avuto mai.
Sarei scesa, quasi davanti l’ospedale delle Molinette, entrando nel Pronto Soccorso, sbrigando pratiche burocratiche, attendevo, finché mi avessero fatto le lastre, non avevo niente di rotto nella testa, mi avrebbero cucito quattro punti sulla ferita e alle domande di routine di medici e infermiere:
«Cosa le è accaduto? Chi l’ha ridotta così? Vuole fare una denuncia?»
Avrei dato una risposta limpida, indiscutibile:
«Come da bambina scendo le scale scivolando sul corrimano di legno, faccio prima dell’ascensore. Ieri sono caduta giù per i gradini… Non sono più bambina, ma ho la testa dura … Lo faccio spesso e volentieri e so che continuerò a farlo.»
Con un cerotto sulla testa, tanta debolezza nel corpo e nell’anima, mi sarei fermata al bar per prendere un cappuccino, seduta al tavolino, guardavo quella bevanda caldissima, desiderabile, che avrebbe invitato al paragone: «Così siamo noi, latte e caffè, lui scuro e vellutato, io bianca come il latte, insieme si sono mescolate le nostre vite come in questo amabile cappuccino.»
Avrei chiamato al telefono mio padre parlando in Inglese, gli avrei raccontato tutto ciò che era accaduto, anche se il bar era strapieno di gente, nessuno avrebbe compreso l’Inglese espresso con sveltezza.
Lui si sarebbe preoccupato per me, avrebbe comunicato la sua ansia con meste parole:
«Ho già perso tua madre, Emma, non posso perdere anche te.»
L’avrei rassicurato:«Papà sto bene, mi hanno messo quattro punti sulla testa.», l’avrei confortato con voce serena e ironica:«Hanno rasato un po’ i miei già rasi biondi capelli, non ho niente, ma cosa devo fare papà? Come posso aiutarlo?»
«Oddio Emma la situazione politica è complessa … La nostra Europa dove sono nate, dopo due guerre mondiali, le libertà, le democrazie, i diritti di ogni essere vivente ripercorrono orme, sentieri razziali, tragici e funesti … E come in passato ha molte colpe, continua a prosciugare risorse, materie prime nel Sud del mondo, corrompe governi e impianta dittature … Emma, tesoro mio, conosci le leggi razziali francesi, inglesi, italiane anche se lavori in un’agenzia di viaggi sei una giornalista, puoi fare una sola cosa: tenerlo sempre insieme a te, non lo lasciare mai solo, a meno che non sia in casa, mi informerò, mi impegnerò a trovargli un lavoro … Glielo dobbiamo Emma Stevenson.» Pochi momenti di silenzio, tipiche rifrazioni mentali di mio padre poi: «Ti chiamerò stasera tesoro, e la prossima settimana volerò da te, ho voglia di vederti, assicurarmi che stai bene, inoltre voglio conoscere quel ragazzo del Biafra, tua madre ed io abbiamo seguito da giornali e tivù quella terribile guerra, insieme abbiamo pianto e sofferto.»
Poi aveva aggiunto con tono rassicurante:«Non devi preoccuparti Emma, penserò a tutto, io so muovere le pedine giuste »
Mentre chiudevo il telefono pensavo a quanto fosse adorabile mio padre, mi aveva chiamato con nome e cognome come faceva quando ero piccola, onde di nostalgia mi avvincevano, dissolvevano oscurità, asciugavano lacrime di sale e oltre la linea spezzata dei palazzi si affacciava in piena mattina un bagliore di stella.
Sarei salita in tram per tornare a casa, e sarei andata su con l’ascensore, con un raggio di luce nel cuore.
Lui era in sala, seduto sul divano davanti la tv, si sarebbe alzato, mi avrebbe preso una mano, mi chiedeva com’era andata, quel lieve contatto mi avrebbe scosso, forse pensavo ci eravamo conosciuti in un’altra vita o in un sogno insolito dove il fiume scorre al contrario, dove sotto un cielo di porpora volavano sogni, respiri di libertà.
Ora lo guardavo negli abiti di Manuel mentre riassettava la cucina e preparava il pranzo.
Si apriva il ventaglio della memoria rivedevo la gioiosa frenesia di Manuel, i suoi occhi verdi di vita, il suo mondo, un vento che trascinava in cieli limpidi, in mari trasparenti che avvolgevano in onde di premura il nostro amore fraterno.
«Riposati Emma, ti hanno cucito la testa, non stai ancora bene.», mi avrebbe detto Chuba.
Mi sarei risvegliata all’ora di pranzo, di nuovo eravamo seduti al tavolo, intuivo la sua inquietudine, mangiavamo quasi in silenzio, lentamente.
«Ti senti come un uc***lo in gabbia? Non sei abituato a stare chiuso in una casa, vero?»
«Sì , è così .»
«Ti devi abituare, sai cosa accade ai clandestini in Francia?»
«No».
«Quelli che sono “sans papier” ossia senza documenti, li mettono in carcere anche per trentadue giorni, in attesa di espulsione, se sei fortunato puoi finire nel mercato del lavoro nero, fare parte di una schiera di esseri umani invisibili, senza diritti, solo braccia da lavoro … Questa è la nuova legge voluta da Sarkozy, colpisce anche i cittadini francesi che ospitano, danno cibo e aiuto gli stranieri, possono essere denunciati e finire in carcere anche loro …. È una legge di sospetto, controllo, una legge di polizia, è così anche nel Regno Unito e in Italia e in altri paesi europei.»
«Tu rischi il carcere per me?»
«No, in Italia la legge incarcera i clandestini poi li rimpatria … Mi dispiace dirti queste cose ma devi sapere fino in fondo.»
«Sai come passano la dogana fra Italia e Francia i clandestini?»
«No, da noi nessuno sa, l’Europa ci viene presentata come una terra ricca, ospitale che dà lavoro, noi paghiamo tanti soldi per arrivare, non sappiamo niente … Per arrivare qui, ho attraversato il deserto su camion con altri come me senza cibo, senza acqua … Il mare freddo e tempestoso. »
Non voleva dirmi di più ma intuivo che aveva attraversato l’inferno sia in terra che in mare.
«Sono una giornalista, Chuba, anche se lavoro in un’agenzia turistica per qualche ora al giorno, scrivo per un giornale, articoli sulla condizione della donna nel mondo, sono sempre informata di tutto, so che potrei sposarti, come me avresti la nazionalità italiana o Inglese, poi chiedere il divorzio, ma la legge prevede la convivenza … Sarebbe come incatenarti, non potresti realizzare il tuo sogno, né io potrei conseguire il mio, quello di essere una reporter, studiare, conoscere il mondo femminile di ogni remoto, sconosciuto paese della terra, ricostruire i loro legami con il passato, valorizzare la loro cultura, liberandola dai pregiudizi occidentali.»
Poi con un taglio nel cuore, voce sommessa, parole aride, secche, accartocciate come foglie d’autunno:
«I clandestini partono dall’Italia su autotreni, dove vengono nascosti, fra derrate, mercanzie, beni di consumo di ogni tipo, in silenzio si guardano, sanno cosa devono fare all’arrivo della dogana francese, mentre gli autotreni sostano e sfilano lentamente, si mettono in testa un sacco di nylon per non respirare, i loro aliti non saranno avvertiti dai cani della polizia ma il tempo è un nemico terribile per una manciata di secondi molti muoiono soffocati, e sono come te Chuba, giovani, forti, fiduciosi e innocenti … Mi dispiace ma è così, a volte mi vergogno di essere europea, forse ha ragione mio padre quando con intransigenza e amarezza afferma che l’umanità ha prodotto nel corso dei millenni solo una cosa buona: l’arte in ogni sua forma d’espressione», dal viso scendevano lacrime, mi sarei soffiata il naso.
«Mi dispiace, Chuba, la storia di ieri oggi si ripete, uomini imbarcati sulle navi hanno lo stesso destino, nessun diritto umano, solo braccia da lavoro è una nuova forma di schiavitù.»
«Lui mi prendeva le mani, mi asciugava le lacrime, non piangere Emma … »
Lo rassicuravo: «Non è niente, scusami, sono serena … Ho parlato con mio padre, penserà a tutto, la tua posizione sarà regolarizzata, ti troverà un lavoro a York, arriverà fra pochi giorni devi solo fare attenzione, uscire con me, o rimanere in casa quando io sono al lavoro».
Ancora una volta le nostre anime si erano parlate con linguaggi segreti, amabili, noi non lo sapremo mai.
Ci saremmo guardati con incanto, ci ascoltavamo come se le parole fossero ricchezze al confine del mondo, con sorpresa ci saremmo trovati vicini, turbati e impauriti di un qualcosa che percorreva la nostra pelle, si insinuava nell’anima.
Avrei aperto la porta finestra del terrazzo, il tempo stava cambiando, affievolito il vento che trascinava con sé i colori, nuvole chiare s’addensavano nel cielo, la città diventava opaca, grigia come le acque del Po.
«Non può piovere.», gli avrei detto, «Troppo freddo, nevicherà».
«Cos’è la neve?»
«Domani lo vedrai».
Tre giorni trascorsi fra neve e fango, un traffico lento, quasi inesistente, avevano viaggiato gli spalaneve e mezzi pubblici, eravamo usciti a piedi con stivali, cappelli, piumini, avevamo giocato come bambini, a pallate di neve, tirate di sbieco, la città coperta di neve incantava Chuba, il suo bianco lucente toglieva o nascondeva la sporcizia del mondo, la purezza splendeva in quel candore.
«Cielo e terra hanno lo stesso bianco colore», mi diceva con la meraviglia di un bambino.
Passeggiate lungo i viali coperti di neve, lo guardavo, gli parlavo gli raccontavo, lui ascoltava e taceva ma sempre più spesso ma iniziava a parlare della cultura antica del suo popolo che risaliva a mille anni fa, conosceva i metalli, realizzava enormi statue in terracotta come augurio per i raccolti o forse divinità, un civiltà scomparsa 200 anni fa, ancora sentivo sua voce, che lenta quasi come la neve cadeva nell’anima.
Provavo per lui qualcosa che andava oltre la riconoscenza e l’amicizia, che si cullava nell’ignoto mistero della vita, percepivo che era qualcosa che forse non si oscurerà, non si dissolverà come la neve che ora il sole stava sciogliendo.
Mio padre stava per arrivare, andavo a prenderlo all’aeroporto, attendevo con ansia, la gioia sulla pelle si allargava e sprofondavo nelle sue braccia.
A casa abbracciava Chuba come fosse un figlio, quel figlio che la vita gli aveva negato.
Mi avrebbe strizzato l’occhio e mi avrebbe detto in italiano per non farsi capire da lui:
«E’ un bravo ragazzo Emma, per domani ho preso appuntamento con il Questore, con il Prefetto ho già parlato da York, domattina lo porterò con me… Stasera usciamo, ceneremo al ristorante Del Cambio, il più famoso di Torino, faremo un passo indietro nella storia, lì mangiava Camillo Benso Conte di Cavour … Ci siamo andati con la mamma ma eri troppo piccola non puoi ricordare … E’ a due passi dall’Università e dal Museo Egizio.»
Poi avrebbe chiesto a Chuba cosa avesse fatto e dove gli sarebbe piaciuto lavorare.
«So fare tutto, Signore, ho lavorato come meccanico riparatore e posso imparare altri mestieri.»
Quattro telefonate sarebbero volate nel cielo della legalità, per fax era arrivata da York la richiesta di lavoro in un’officina meccanica di un amico di mio padre la mattina stessa prima che uscissero di casa; in un due giorni Chuba avrebbe ottenuto i documenti.
«E’ un profugo cristiano, Emma, tutto era stato più facile, abiterà con me finché vorrà.»
Dopo aver visitato la città, ogni luogo dove l’arte distendeva il suo splendore negli occhi umani e forse avrebbe perdonato errori disumani, avevamo fatto shopping nei negozi del centro storico, comprato e ricomprato vestiti, scarpe, cappelli anche per Chuba.
Dopo domani partirà con mio padre, mi sarebbe sembrato che il mio cuore fosse rimasto interrato dentro la fine sabbia del Po'.
Ma andrò spesso a York, dopotutto io sarò il latte e lui sarà il caffè e lì, dove viveva il mio adorato papà!
Le stelle non scendono da noi
Il razzismo e lo sfruttamento sono una piaga endemica della storia sviluppata dall'umanità. Questo racconto è un messaggio.
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