Perché amiamo tanto?
L’amore non rinnega il sesso e l’erotica, ma li fa ruotare intorno a quel “tu” che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, sente come un “tu-destino”. Questo “sentimento della destinazione reciproca”, come lo chiama Mario Trevi, non può essere compreso dall’esterno e sfugge anche a chi ne è coinvolto e che non riesce più a distinguere sé da quel sentimento che lo costituisce. Scrive a proposito Trevi:“Nell’amore l’amante e l’amato si sentono reciprocamente “destinati”, mossi cioè da una forza che, da una parte, li separa e li governa e, dall’altra, rappresenta quanto di più specifico compete all’uno e all’altro. Il “destino”, si sa, è bifronte: da un lato appare come forza cosmica, dall’altro è quanto di più singolare ci riguarda, quel che appunto ci rende “singoli”, inconfondibili, in un certo senso “soli”.
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Si dirà: un sentimento non garantisce nulla, un sentimento può anche ingannare. Così è infatti. Un sentimento non ha alcuna realtà al di fuori della psiche che lo sperimenta, dunque nessuna garanzia ontologica. E’ un evento, non una res, una cosa. Si radica in se stesso. Per questo può apparire effimero come una falena o immortale come un dio. Non sappiamo cosa sia l’amore. Sappiamo solo che “abitandolo” l’amante si sente destinato all’amato e questo a quello. E allora, per questo sentimento che non ha radici fuori di se stesso, si attua quel “miracolo” del tutto inesplorabile dell’ “entusiasmo amoroso”, in cui, dice Jaspers: “la singola persona finita diventa l’uno e l’assoluto”. […] L’ “io” e il “tu” avvertono di muoversi, anzi di “essere mossi” l’uno verso l’altro da distanze cosmiche, da tempi mitici inimmaginabili. L’esser convenuti da spazi ed ere incommensurabili in un unico, definitissimo punto procura la ferma vertigine che afferra i pellegrini dell’assoluto, non importa se si tratta di mistici o di amanti. D’altra parte i primi hanno sempre impiegato il linguaggio dei secondi. Ognuno infatti, nell’amore, è assoluto per l’altro.
Umberto Galimberti
Umberto Galimberti
Umberto Galimberti (Monza, 2 maggio 1942) è un filosofo, accademico e psicoanalista italiano, nonché giornalista de La Repubblica.
Operating as usual
La “ragione” di Freud come dominio sulle passioni
Freud, buon lettore di Schopenhauer, è stato cattivo lettore di Nietzsche, e male ha fatto a tenersi lontano dal filosofo: “Nello sforzo di capire un filosofo, ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi.” Ciò non ha impedito a Freud di mutuare da Nietzsche del materiale linguistico, come ad esempio l’espressione “Es” per designare l’inconscio: Adeguandoci all’uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Groddeck, chiameremo d’ora in poi l’inconscio “Es”. Questo pronome impersonale sembra particolarmente adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all’Io. Super-Io, Io ed Es sono dunque i tre regni, territori, province, in cui noi scomponiamo l’apparato psichico della persona e delle cui reciproche relazioni ci occuperemo in quanto segue. La geografia di Freud è profondamente schopenhaueriana. E qui non alludiamo ad analogie occasionali come quella spesso ravvisata nella teoria schopenhaueriana che lega la follia alla rimozione, o nel primato della sessualità che Schopenhauer definisce “ultimo scopo di quasi ogni sforzo umano”, ma al dualismo coscienza/inconscio, dove la psicoanalisi di Freud sembra ricalcare alla lettera la filosofia della natura di Schopenhauer. Come la “volontà irrazionale”, infatti, l’“inconscio” è fuori dallo spazio e dal tempo, non rispetta il principio di non contraddizione e quello di causalità, si sottrae alla storia e al principio di individuazione, guarda all’Io come a un effetto secondario della sua forza pulsionale, come a un risultato biologicamente determinato nello sviluppo della storia naturale. Se invece lo sguardo è promosso dall’Io (come in Schopenhauer la rappresentazione è promossa dall’individuo), questi si descrive come istanza suprema della razionalità discorsiva in grado di oggettivare, sul piano della conoscenza, il carattere della natura da cui emerge. Questo doppio scenario, a seconda del punto di vista che si adotta, si ripercuote nell’interpretazione dei sogni, dove da un lato, come disgregazione della memoria intorno a cui si organizza la rappresentazione, “il sogno è simile alla follia”, dall’altro, come irruzione della volontà nella sfera della rappresentazione, esso diventa “lo strumento di cui si serve la nostra onniscienza sognante, per far giungere possibilmente qualcosa all’ignoranza della nostra veglia”. Questo schema di Schopenhauer lo ritroviamo anche in Freud là dove afferma che “il sogno è una psicosi, con tutte le assurdità, le formazioni deliranti, le illusioni sensoriali proprie delle psicosi” perché “il materiale inconscio, irrompendo nell’Io, porta con sé il suo modo di lavorare”, e prima di tutto la sospensione del regno della logica, essendo “l’inconscio il regno dell’illogico”. D’altro canto, “la memoria onirica è assai più estesa di quella dello stato vigile”, perché affonda le sue radici nelle dimensioni arcaiche dell’esperienza individuale e collettiva, al punto da costituire “una fonte non disprezzabile per la conoscenza della storia umana”. Occorre dunque affrontare un compito ermeneutico, che Schopenhauer sembra risolvere meglio di Freud. Rifiutando infatti ogni riduzionismo naturalistico, Schopenhauer afferma che, se i simboli onirici avessero per tutti gli uomini “un significato costante e sempre valido, si potrebbe anche compilare al riguardo un dizionario”. Siccome però l’interpretazione non può che riferirsi “particolarmente e individualmente all’oggetto e al soggetto di ogni sogno”, l’allegorizzazione onirica, che nella terminologia di Freud corrisponde al “lavoro del sogno”, non può consistere nel semplice disvelamento di una pulsione naturale, ma richiede la ricostruzione biografica della simbolizzazione individuale. Ciò sposta l’interpretazione dallo sfondo naturalistico, in cui la trattiene la metapsicologia di Freud, a quello storico, dove sono ripercorse le vicissitudini dei singoli soggetti, la storia delle loro produzioni oniriche e delle loro personali interpretazioni. Condividendo il modello kantiano dell’inconoscibilità del noumeno, Freud e Schopenhauer ritengono che la cieca pulsione si manifesti solo nelle sue “oggettivazioni” o, nel linguaggio freudiano, nei suoi “investimenti”, che si rendono visibili sul piano dell’apparenza fenomenica. Il mondo schopenhaueriano della rappresentazione diventa così in Freud la teoria, che la coscienza scrive, del suo carattere apparente, mentre il mondo della volontà, che tende alla soddisfazione dei bisogni, ha il suo corrispondente nel freudiano principio di piacere. Quest’ultimo, regolando l’oscuro Es, sempre teso al soddisfacimento e quindi all’estinzione delle pulsioni, ripristina, alla maniera di Schopenhauer, quell’unità indifferenziata con la natura in cui si celebrano la non-identità e la morte come “sentimento oceanico del Nirvana”. Infatti, scrive Freud: Nell’Es, dove lottano le forze primordiali dell’Eros e della pulsione di morte potremmo rappresentarci la situazione come se l’Es stesse sotto il dominio delle mute ma possenti pulsioni di morte, le quali cercano la pace e si sforzano di ridurre al silenzio, secondo l’indicazione del principio di piacere, l’Eros turbolento. La teoria psicoanalitica di Freud è dunque profondamente schopenhaueriana. Nella separazione tra coscienza e inconscio e nella loro descrizione risuona potente il mondo come volontà e rappresentazione, con una differenza, però: mentre Schopenhauer invita con la noluntas a rinunciare al gioco della volontà e a togliere la maschera alla sua rappresentazione, Freud, come del resto Nietzsche, sta dalla parte della rappresentazione, che legge, a differenza di Nietzsche, non come liberazione delle pulsioni, ma come dominio sulle pulsioni. Per esprimerci in termini nietzscheani, potremmo dire che l’intenzione di Freud non è la liberazione del dionisiaco, ma la liberazione dal dionisiaco, quindi “ascesi” e “rinuncia” schopenhaueriana. Sollevata la maschera della “cura” delle pulsioni, ciò che rimane è il trionfo della “morale” e le dimissioni dell’“estetica”. Scrive infatti Freud: In ogni tempo si è assegnato all’etica il massimo valore come se tutti se ne aspettassero importanti conseguenze. Ed è vero che la morale, come è facile riconoscere, tocca il punto più vulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come un esperimento terapeutico, come uno sforzo per raggiungere, attraverso un imperativo del SuperIo, ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun’altra opera di civiltà. A parere di Freud l’opera di civiltà passa attraverso il prosciugamento dello Zuiderzee, il mare interno bonificato lungo le coste olandesi: L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee.
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Anatomia di un individuo che ama solo se stesso
Dalla nevrosi narcisistica dovuta, come ci insegna Freud, a un arresto dello sviluppo psichico, alla sempre più diffusa cultura del narcisismo.
Quando nasciamo, letteralmente veniamo al mondo, che incominciamo a vedere quando apriamo gli occhi, senza capire nulla di dove siamo capitati. C’è però una madre che fa da mediatrice tra noi e le cose del mondo. E siccome queste cose non sappiamo che cosa sono né che cosa significano, la sola “relazione oggettuale”, come dicono gli psicoanalisti, si instaura con quell’unico oggetto che percepiamo fuori di noi, che è la madre. Può rispondere ai nostri bisogni più o meno sollecitamente, può gratificarci con i suoi baci, i suoi abbracci, le sue carezze, può rassicurarci quando il mondo si fa buio perché viene la notte ad animare tutte le ombre, può attutire le nostre angosce, così come può rispondere ai nostri sorrisi, che ci capita di fare senza sapere davvero perché. Se questa relazione va abbastanza bene e le risposte della madre sono positive, prende corpo la “relazione oggettuale”, ossia la capacità di investire su un oggetto (la madre) che è fuori di noi. Ma se la relazione non va bene, se gli investimenti che il bambino fa sulla madre non ricevono risposte adeguate, o comunque non sono gratificanti, il bambino può incamminarsi sui sentieri della depressione, oppure può salvarsi dalla depressione investendo non più sull’oggetto esterno (la madre), ma su di sé.
Qui è la prima radice della personalità narcisistica: si creano i presupposti per cui il bambino prende a investire esclusivamente su di sé e ad amare unicamente sé. Fin qui quanto ci insegna la psicoanalisi circa l’origine del narcisismo, dove l’amore per sé prevale nettamente sull’amore per gli altri, di cui il narcisista ha un assoluto bisogno ma solo per essere gratificato dai loro applausi (al posto delle mancate gratificazioni materne), senza i quali non si sente letteralmente al mondo. Per questo fa di tutto per ottenerli, riuscendo anche a essere bello, interessante, creativo, pieno di iniziative che affascinano le donne, le quali si innamorano perdutamente dei narcisisti, fino ad assaporare ogni giorno la tristezza di amare uno che non sa amare. Una tristezza che le donne sopportano, sostenute dalla convinzione che, prima o poi, riusciranno con il loro amore a cambiare i narcisisti. Da dove viene questa convinzione, destinata inesorabilmente a naufragare? Io penso che abbia radici in quel vissuto di onnipotenza presente in ogni donna - forse derivato dal fatto che, in quanto generatrice, ha il potere di vita e di morte - per cui è disposta a subire ogni sorta di frustrazione e delusione, non solo quando ama i narcisisti che non sanno restituire neppure una briciola d’amore, ma anche quando ama i violenti, subendo ogni sorta di brutalità, maltrattamento, abuso, sopraffazione. In questo modo, le donne dimenticano di poter generare i bambini, ma non di ri-generare gli adulti, ormai solidificati, per non dire pietrificati nella loro identità. Naturalmente l’idea di riuscire a cambiare le cose costituisce per la donna, a sua volta, una gratificazione narcisistica. Ma siccome il tentativo non approda ad alcun risultato, meglio rinunciare a quel vissuto di onnipotenza che la follia d’amore alimenta, lasciando però il narcisista, che non sa amare, nella più assoluta indifferenza.
Ma oltre alla nevrosi narcisistica dovuta, come ci insegna Freud, a un arresto dello sviluppo psichico, oggi va sempre più diffondendosi una cultura del narcisismo, in cui viene a trovarsi ogni individuo cui è stato sottratto ogni orizzonte di senso che trascenda i limiti del proprio Io. Questa cultura soggettivistica, che ha le sue antiche radici nel cristianesimo, a cui si deve l’aver posto in primo piano l’individuo e la sua sorte ultraterrena, oggi si è diffusa in modo esasperato nella nostra età, governata dalla razionalità della tecnica. Al suo interno, i rapporti personali sono regolati dai ruoli e dalle funzioni, al punto che al singolo individuo non resta, per la propria autorealizzazione, che lo spazio ridotto del privato, in quella frammentazione che porta ciascuno a vedere se stesso in termini sempre più atomistici. Non solo: si diventa sempre più impermeabili alle richieste della natura, sia quella dentro sia quella fuori di sé, dopo avere perso quegli orizzonti di senso che la cultura dell’età pre-tecnologica aveva indicato nel rapporto dell’uomo col mondo (cosmologia), con gli altri (sociologia), con se stessi (psicologia). In un contesto di questo genere, dove l’identità è messa tra parentesi dall’idoneità e funzionalità all’apparato lavorativo, dove a renderci riconoscibili non è più il nome ma il ruolo e la funzione, l’unico spazio libero per trovare se stessi è l’amore. Ma se l’amore viene subordinato all’affermazione di sé, è ovvio che ciascuno cerchi, nell’altro di cui si innamora, il proprio Io. Quindi non tanto il piacere della relazione, quanto la gratificazione dell’autorealizzazione. È evidente che individualismo ed egoismo, generati da questa cultura del narcisismo, sono in agguato, anche se ben nascosti e tacitati. La cultura del narcisismo, che impedisce di uscire dall’orizzonte ristretto del proprio Io, genera la cultura del relativismo, per cui ciascuno decide da sé in che cosa consiste l’autorealizzazione, senza che nessuno debba o possa interferire nella scelta. A giustificazione di questo comportamento, la cultura del relativismo indossa i nobili panni della libertà, intesa non più come la scelta di una linea d’azione, ma come la scelta di mantenersi aperta la liberta di scegliere, quindi la revocabilità di tutte le scelte. Ma se ogni scelta è revocabile, la parola “scelta” non ha più significato, perché non possiamo considerare davvero tale una decisione che non comporta alcuna conseguenza di rilievo, con non trascurabili effetti anche sulla nostra identità che, in questo regime, può essere indossata e poi tolta come un abito. Questo concetto di libertà, generato dalla cultura del narcisismo, raggiunge il massimo del degrado quando giustifica le scelte sulla base dell’affermazione: «Ma io sono fatto così», oppure: «Ma io sento così». Quando si assume il proprio “sentire” come criterio di scelta, si regredisce al livello infantile, regolato, come ci spiega Freud, dal principio di piacere e non dal principio di realtà, come invece ci si attenderebbe da un adulto. Allora si innesca quella condotta edonistica che tende all’autorealizzazione, senza tenere assolutamente conto dell’appartenenza di ogni individuo a quel più ampio sistema sociale nel quale «ma io sento così» deve misurarsi con quello che sentono gli altri. E degli altri il narcisista ha un estremo bisogno, se non altro per gli applausi e i riconoscimenti di cui è incessantemente alla ricerca, come un assetato lo è dell’acqua.
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Come si fa a chiedere a chi ha subito atrocità di essere accompagnato da un russo come se fosse un amico?
Il Dio denaro
Aristotele diceva che il denaro non può produrre denaro in quanto il denaro non è un bene, ma il simbolo di un bene e con i simboli non si fa ricchezza. Nel Vangelo, Luca scrive “Prestate il denaro senza attendervi la restituzione”. Provate adesso a dirlo alle banche le quali, tra l’altro, hanno spesso nomi di santi: San Paolo, Santo Spirito. Ma l’attuale modello è questo. Il denaro è diventato il principio dell’economia che, con il tempo, ha avuto sempre meno a che fare con la ricchezza prodotta materialmente – l’agricoltura, l’industria, l’artigianato, il commercio – e sempre di più con la ricchezza prodotta finanziariamente. Cioè proprio il denaro che genera denaro”.
Tra i miti che abbiamo indicato, il peggiore, il più falso è senz´altro il mito della guerra che non ha mai cessato di trovare cantori che ne hanno esaltato l´eroismo, la forza, il coraggio, la bellezza, coprendo, sotto questo manto estetico, quanto di più atroce l´uomo, e solo l´uomo, ha ideato, perché, ci ricorda Hegel, a differenza dell´animale, l´uomo non uccide per mangiare, ma per ottenere dal vinto il riconoscimento della sua superiorità.
Con la sua capacità di eccitare, infatti, col gusto dell´esotismo, con l´allucinazione del potere che conferisce, con la possibilità di migliorare il proprio rango sociale, con l´animazione delle perversioni più sinistre, da quelle sessuali a quelle necrofile, non la guerra, ma il mito della guerra può dare a quanti attribuiscono scarso significato alla loro esistenza, ai dannati della terra, ai profughi impoveriti, ai senza diritti che emigrano, perfino ai giovani che vivono nella splendida indolenza e sicurezza del mondo opulento, uno scopo, un senso, una nobile ragione per vivere.
Il mito della guerra e non la guerra, seduce con il richiamo all´eroismo, ma perché la seduzione sia efficace il mito deve nascondere un elemento essenziale della guerra: il terrore, che i combattenti non possono confessare se non vogliono apparire vili.
Quando l'odio è senza controllo
Perché ci spaventa la strage di Erba, dove una coppia di vicini uccide una madre, il suo bambino, la nonna e la signora della porta accanto? Lo spettacolo è truce, ma forse quel che più ci angoscia non è tanto la sua truculenza, quanto sapere se noi siamo del tutto immuni dai moti d'animo che hanno provocato questa tragedia. Del tutto immuni no. E il nostro linguaggio lo rivela quando si abbandona a espressioni che, senza freni, tradiscono i nostri vissuti carichi di odio. Ma dal linguaggio solitamente non passiamo all'azione. A fermarci non è tanto l'uso della ragione, già messa fuori gioco dall'odio, ma quella "dimensione sentimentale" che registra la differenza tra il bene e il male, tra la gravità di un'azione e la sua irrilevanza. Questa dimensione antecede persino i sentimenti d'amore e odio con cui conduciamo la nostra vita emotiva. Ed è grazie a essa che impediamo al nostro amore di soffocare e al nostro odio di uccidere. Ma quando questa dimensione non c'è? Quando nessuna risonanza emotiva avverte il nostro cuore della differenza tra un gesto innocuo e un gesto truce? Allora siamo alla "psicopatia". Un termine coniato dalla psichiatria dell'800 per designare una psiche apatica, incapace di registrare, a livello emotivo, la differenza tra ciò che è consentito e ciò che è aberrante, tra un'azione senza conseguenze e un'azione irreparabile. Una psiche priva di quella risonanza emotiva che ciascuno di noi registra quando compie un'azione, dice o ascolta una parola. E sì, perché la psiche non è una dote naturale che uno possiede per il solo fatto d'esser nato e cresciuto. La psiche è qualcosa che si forma attraverso quel veicolo, così spesso trascurato, che è il sentimento. Ora capita spesso che ai bambini insegniamo a mangiare, a dormire, a parlare. Ammiriamo i loro sprazzi di intelligenza, le loro intuizioni, ma poco ci curiamo della qualità del sentimento che in loro si forma e talvolta, a nostra insaputa, non si forma. Il sentimento è l'organo che ci consente di distinguere cos'è bene e cos'è male, per cui Kant arriva a dire che è inutile definire cos'è buono e cos'è cattivo, perché ognuno lo "sente" naturalmente da sé. Questo criterio, che valeva al tempo di Kant, oggi vale molto meno. E la ragione va cercata nel fatto che i bambini di oggi sono sottoposti a troppi stimoli che la loro psiche infantile non è in grado di elaborare. Stimoli scolastici, stimoli televisivi, processi accelerati di adultismo, mille attività in cui sono impegnati, eserciti di baby-sitter a cui sono affidati, in un deserto di comunicazione dove passano solo ordini, insofferenza, poco ascolto, scarsissima attenzione a quel che nella loro interiorità vanno elaborando. Quando gli stimoli sono eccessivi rispetto alla capacità di elaborarli al bambino restano solo due possibilità: o "andare in angoscia", o "appiattire la propria psiche" in modo che gli stimoli non abbiano più alcuna risonanza. In questo secondo caso siamo alla psicopatia, all'apatia della psiche che più non elabora e più non evolve, perché più non "sente". L'appiattimento del sentimento di solito non è avvertito, perché l'intelligenza non subisce per questo alcun ritardo. Anzi, si sviluppa con una lucidità impressionante, perché non è turbata da interferenze emotive, come tutti noi possiamo constatare, quando di fronte a una prova, come un esame, le nostre prestazioni sono sempre inferiori alla nostra preparazione, per interferenza dell'emozione. Nessuna meraviglia quindi di fronte alla freddezza e alla lucidità con cui la coppia di Erba conduce, per un mese, la sua vita normale come se nulla fosse accaduto, senza lasciar trapelare emozioni. Nessun stupore di fronte all'indifferenza al momento dell'arresto e di fronte all'ostinazione con cui, per un paio di giorni, i due sostengono il loro alibi, crollando solo dopo 10 ore d'interrogatorio, quando ormai anche le forze fisiche cedono. La complicità nell'esecuzione della strage accomuna marito e moglie in una "follia a due", come la psichiatria francese definisce casi di questo genere. Accomunati dall'odio per i vicini di casa, dopo la strage i due si accomunano nell'amore reciproco, con un legame che il sangue versato rende saldissimo, nella vicendevole difesa di un vincolo di solidarietà che nulla riesce a scalfire, perché la loro psiche è piatta, non registra né pentimenti né ripensamenti. Solo alla fine, per sfinimento, una fredda confessione, senza manifestare il minimo senso di colpa, come se il loro cuore non fosse mai stato sfiorato da quel "sentimento di base" che sa distinguere immediatamente, e prima dell'intervento della ragione, cos'è bene e cos'è male. Quando i giudici, appurate le prove, condannano tali imputati, sono soliti appurare la loro facoltà di "intendere" e "volere" che ovviamente funziona benissimo. Bisognerebbe però anche valutare la loro capacità di "sentire". E qui si scoprirebbe la radice di certe condotte che risultano aberranti a noi tutti che viviamo sostenuti dal nostro sentimento, ma che non acquistano alcuna rilevanza per chi il sentimento non l'ha mai conosciuto, perché a suo tempo non è stato raccolto, ascoltato, coltivato. Gli psicopatici sono un caso limite dell'umano, ma la psicopatia come tonalità dell'anima a bassa emotività e a scarso sentimento è qualcosa che si va diffondendo tra i giovani d'oggi che, nella loro crescita, acquisiscono valori d'intelligenza, prestazione, efficienza, arrivismo, quando non addirittura cinismo, nel silenzio del cuore. E quando il cuore tace e più non registra le cadenze del sentimento, il terribile è già accaduto anche se non approda a una strage. Illustrare questi casi è opportuno, non per sollecitare la nostra curiosità morbosa, ma per capire dove può arrivare la nostra condotta quando non è accompagnata dal sentimento, e quindi richiamare l'attenzione sui processi di crescita dei nostri figli, onde evitare che l'intelligenza si sviluppi disancorata dal sentimento e diventi intelligenza lucida, fredda, cinica, e potenzialmente distruttiva.
La dimensione originale del corpo è ben espressa nella lingua tedesca che è molto più precisa dell’italiano. Loro chiamano il corpo della medicina sommatorio di organi, quello in cui noi abbiamo prestato fede, Körper, e qualche volta più radicalmente Körperding, che vuol dire il corpo ridotto a cosa, come oggetto di osservazione clinica...
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Umberto Galimberti "Il corpo in Occidente" Conferenza di Umberto Galimberti sul simbolismo e l'ambivalenza del corpo umano nella storia della nostra cultura, presso la Cattedrale della Fabbrica del Va...
Distanziamento e disagio giovanile, "Abbiamo dei ragazzi deboli oggi, e questo è un problema"
Il Natale è ancora una festa Cristiana?
Mi sono posto questa domanda quando mi è stato chiesto che cos´è il Natale per l´ateo che non crede in Dio, per l´agnostico che non sa se Dio c´è, per il laico che nelle sue scelte etiche prescinde dalla nozione di Dio? E la risposta che mi sono dato guardando le pratiche natalizie degli acquisti e dei consumi è che nella nostra cultura il Natale è già ateo, o se preferite agnostico, certo profondamente laico. Di cristiano è rimasto solo il rito che si ripete, la ricorrenza che ritorna, la festa che, come nessun’altra, è davvero “comandata”.” Per non parlare poi del cristianesimo è una morale (della moderazione) e l’economia è un’altra morale (della soddisfazione smodata). Le due morali sono incompatibili, per cui parlare di un’economia cristiana ha lo stesso significato e spessore logico di un circolo quadrato, con buona pace di tutti i benpensanti che ritengono di poter far quadrare il cerchio. Nel momento, infatti, in cui la società è passata dallo stato di bisogno allo stato di soddisfazione smodata del bisogno, la morale del cristianesimo ha finito la sua storia, e quindi o emigra nel Terzo e nel Quarto mondo dove vive la mortificazione del bisogno, o sparisce.”
Quindi Il senso del Natale? “Per questo un sottile, ma pervasivo senso di colpa, connesso al nostro privilegio, accompagna gli acquisti natalizi con cui nelle nostre case allestiamo l’albero di Natale. Simbolo non cristiano dove traluce il nostro benessere, e che perciò ha preso il posto del presepe cristiano che è invece uno spettacolo della povertà. Dalla stalla dove è nato Gesù il senso del Natale cristiano si è infatti trasferito nel luccichio dei negozi, nella sovrabbondanza dei supermercati, nelle evasioni promesse dalle agenzie di viaggio, per cui la domanda non è: che senso ha la festività di Natale per un laico, ma che significato essa ancora possiede per un cristiano che vive in una cultura opulenta, e in ogni suo aspetto laicizzata, dell’Occidente “cristiano”?”
Ecco la risposta alla questione “Non guardiamo il Natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c’è provvisorietà e anche un po´ di inganno. Una festa può essere così universale solo se coglie il senso originario della nostra esistenza, non solo semplicità e innocenza che, nel disincanto del mondo, ormai non ci appartengono più. […] A Natale proviamo la vertigine di chi si trova per un giorno e a sua insaputa gettato lungo la via faticosa della ricerca di senso, della direzione della nostra esistenza, con l’amara sensazione che il teatro del mondo ci preveda come semplici marionette, mosse da voleri che ci sovrastano e ci impongono, loro sì, una direzione ignota.”
La domanda sul dolore e sul suo senso
In questa radicale mancanza di senso fa la sua comparsa l’angoscia, che, come Freud e Heidegger ci hanno insegnato, a differenza della paura, non ha un oggetto che la scatena. Scrive in proposito Freud: L’angoscia (Angst) ha un’innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e innanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza di oggetto. Nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto, le si cambia nome, sostituendolo con quello di paura (Furcht). E Heidegger dal canto suo: Col termine angoscia (Angst) non intendiamo quell’ansietà (Ängstlichkeit) assai frequente che, in fondo, fa parte di quel senso di paura (Furcht) che insorge fin troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia: la paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato. E poiché è propria della paura la limitatezza del suo oggetto e del suo motivo, chi ha paura ed è pauroso è prigioniero di ciò in cui si trova. Nel tendere a salvarsi da questo qualcosa di determinato, egli diventa insicuro nei confronti di ogni altra cosa, cioè, nell’insieme, “perde la testa”. L’angoscia non fa più insorgere un simile perturbamento. È attraversata piuttosto da una quiete singolare. Certo, l’angoscia è sempre angoscia di..., è sempre angoscia per..., ma non è per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza. Non ci si angoscia dunque per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende: “L’angoscia rivela il niente” scrive Heidegger. Di “questo” o di “quello” si occupa la pratica psicoanalitica; del nulla, di cui “questo” o “quello” sono semplici premonizioni, si occupa la pratica filosofica, che non prende in considerazione questa o quella sofferenza, questa o quella restrizione della vita, se non per inscriverle in quella più ampia esperienza che mostra l’ineludibile precarietà della nostra esistenza, la cui rimozione è la via regia per la consegna alla disperazione. Può disperarsi, infatti, solo chi ha sperato di poter superare il limite costitutivo dell’esistenza. Qui gli antichi Greci scorgevano la massima colpa che l’uomo potesse commettere. E la chiamarono hÿbris, tracotanza, pretesa di oltrepassare il limite, non riconoscere che tutto ciò che nell’esistenza si genera in essa si dissolve. Così almeno risuona la prima parola della filosofia che con Anassimandro recita: Da dove tutti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.8 La pratica analitica coglie l’angoscia nevrotica che ha la sua causa-colpa (in greco le due parole sono rese dallo stesso termine aitía) nei trascorsi del sofferente, nel suo passato, nella sua biografia; la pratica filosofica coglie l’angoscia esistenziale che alle sue spalle non ha né una causa né una colpa, perché nasce dall’anticipazione della morte futura, di cui la sofferenza, come riduzione delle possibilità di vita, è segno e anticipazione. Dall’angoscia nevrotica si può guarire limitatamente ai sintomi con cui questa angoscia si manifesta, ma non in ordine allo sfondo a cui tali sintomi rinviano, che è poi lo sfondo dell’esistenza percepita come assoluta precarietà. Qui la pratica analitica è impotente, mentre la pratica filosofica ha ancora una parola da dire. E la dice inscrivendo la caducità dell’esistenza nell’universale caducità, che non è una malattia da cui si può anche guarire, perché è la condizione di ogni esistenza che vuol vederci chiaro e non illudersi con cieche speranze. A ricordarcelo è Eschilo: CORO: Nei doni concessi non sei magari andato oltre? PROMETEO: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale. CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia? PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze (typhlàs elpídas). CORO: Un grande giovamento hai così donato ai mortali.9 Questo motivo della caducità universale è stato avvistato anche da Freud là dove racconta: Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi, ma non ne traeva gioia. Lo turba va il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato. [...] L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità. 10 Per non compromettere il proprio impianto psicoanalitico, dal pensiero della caducità Freud si è subito allontanato con la motivazione che “l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso”. Eppure è stato proprio Freud a insegnarci che non è con la rimozione che si risolvono i problemi. E perciò è proprio nel “doloroso” che la pratica filosofica vuole entrare per interrogare il senso dell’esistenza a partire dalla sua caducità. Qui Oriente e Occidente si dividono. L’Oriente dice che il dolore in cui si esprime la caducità dell’esistenza non ha una sua realtà, ma è solo apparenza. Essa nasce da un’errata posizione assunta nei confronti dell’esistenza, per cui è sufficiente cambiare atteggiamento nei confronti del mondo, rinunciare ad esempio alla dimensione volontaristica che vuol dominare tutte le cose, e il mondo del dolore appare per quello che è: pura apparenza. L’Occidente, al contrario, è persuaso che la caducità dell’esistenza, come del resto di tutte le cose, non è apparenza, ma realtà, da cui il dolore scaturisce come sua conseguenza. È qui che le due grandi visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, dalla cui confluenza è scaturito l’Occidente, divergono. Per la tradizione giudaico-cristiana il dolore è la conseguenza di una caduta dovuta a una colpa, che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In tale visione il dolore è castigo e a un tempo evento purificatore. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In tale prospettiva il dolore non è costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme mezzo del suo riscatto. Una volta secolarizzata, questa visione religiosa del mondo porta all’interpretazione del dolore come un inconveniente dell’esistenza da cui si può anche “guarire”. La pratica psicoanalitica è per intero inclusa in questa visione religiosa del mondo. Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma è il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Accolta la caducità dell’esistenza, occorre poi imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo contrarsi, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione può modificare. La pratica filosofica è inscritta in tale visione del mondo, e perciò non conosce speranze salvifiche e concomitanti disperazioni, ma solo la temperata saggezza che il dolore lo si può reggere ed, entro certi limiti, dominare.
Umberto Galimberti